lunedì 19 aprile 2010

Nou aru taka ha tume wo kakusu

Non era importante cosa avesse in mente quel giorno, una cosa era certa. Ora la misura era colma. Gli sembrava di averla già vissuta infinite volte quella sensazione, ma ieri era stata una volta di troppo. Sapeva che avrebbe potuto cambiare la situazione, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto rivolgere gli eventi a suo favore, girare i piccoli interruttori che controllano il flusso. Ma anche questa volta non lo aveva fatto. Non sarebbe stato legale, non almeno secondo le regole di Jack. Le regole di Jack…
Di solito nell'eseguire piccoli esperimenti non si era mai posto tanti problemi, in fondo si trattava solo di piccole modifiche innocenti, una sbirciatina, quasi nulla più. Aveva un senso talmente forte di colpa e di oppressione che la possibilità di poterne trarre un vantaggio personale lo paralizzava. Jack era convinto in cuor suo che questa sorta di barriera, gli fosse stata imposta dalla Natura. L'Evoluzione, pensava, non poteva sbilanciarsi di colpo in quella direzione così bruscamente: chissà quante volte aveva tentato quella strada, e per quali motivi era poi arretrata. C'era ancora qualcosa che gli sfuggiva, che non riusciva a controllare: la continuità della specie, questa solamente era la direttiva da seguire, tutto il resto doveva prenderne atto ed adattarsi o estinguersi. E mentre era assorto in questi pensieri, si accorse di essere già arrivato sul luogo dell'appuntamento, e come sempre, senza nessun ricordo della quasi mezzora di strada che aveva percorso dal luogo dove ora abitava fino a quell'imponente edificio di periferia. L'animo però oggi era diverso, indomabile, più del solito: era ormai saturo, come un vulcano imprigionato sotto la roccia da troppi secoli che ormai anche solo una piccola crepa può far dirompere. Jack Galway viveva col terrore di quella crepa.
Si ripeté ancora una volta mentalmente il proverbio giapponese che gli insegnò tempo indietro uno dei maestri casuali che di tanto in tanto si procacciava lungo la via, e che lo aveva sostenuto anche nei momenti più bui nel dar battaglia e resistere per qualche istante in più. “Nou aru taka ha tume wo kakusu”: il falco saggio nasconde gli artigli.
La tensione era alta, ma come sempre, la causa non era l'imminente colloquio di lavoro cui avrebbe dovuto presenziare da li a poco. Le questioni materiali lo lasciavano sempre alquanto indifferente. La sera prima, invece, viveva ancora forte nella sua mente. Non ne voleva sapere di dissolversi o di passare, come un pezzo troppo grosso di pane masticato poco che fatichi ad essere ingoiato: il fresco della sera, gli amici, le parole appena bisbigliate, le notizie che si accavallavano e volavano via. Nella mente un contorno nitido: lei, bellissima ed avvicinabile. Se l'era fatta scappare, un'altra volta.
L'avvenimento scaturente che oggi rendeva indomabile il suo animo era, perché negarselo ancora, l'ennesima sconfitta. Anche questa volta, se avesse usato le sue armi avrebbe potuto vincere. Si certo, una battaglia che in fondo in fondo non voleva vincere a quel prezzo. Questa ragazza non era nessuno per lui, ma era bellissima, ed era alla sua portata. E lui ancora una volta aveva rispettato le sue regole, ed aveva lasciato alla Natura fare il suo corso. Al momento gli era sembrata una scelta facile, un'inclinazione ragionevole, ma qualcosa non gli dava pace: perché tanto potere nelle mani di un solo uomo se poi non riusciva a usarlo, se poi qualcosa gli auto-impediva di metterlo in pratica. La vita, pensava, è uno stato dell'anima, e chi è in grado di modificarlo, non ha limiti di potere su tutto ciò che di vivente lo circonda. E Jack questo lo sapeva molto bene. Cosa influenza le nostre decisioni o quelle di un capo di stato se non l'equilibrio tra paura, vantaggio e passione. Un alterazione, impercettibile per un osservatore esterno, tra queste tre forze, un minuto spostamento di quest'equilibrio e la storia devia il suo flusso. Come un piccolo accumulo di neve su un ramo di un albero, inosservato, inutile, così trascurabile da non destare l'attenzione di mille soldati che gli siano passati a pochi metri di distanza: ma giunto il suo momento, artefice ed innesco, una volta caduto al suolo, di una crescente valanga in grado di spazzar via un'intera divisione di mezzi corazzati. Un piccolo cumulo di neve contro un esercito, nessuna incertezza sull'esito della battaglia. Piccoli mutamenti, piccoli interruttori della mente e lui sapeva girarli.
Era in anticipo e pertanto decise che poteva dedicarsi a qualcosa di piacevole nell'attesa come, ad esempio, entrare in un bar dove poter sorseggiare una bevanda tiepida e schiumosa dal sapore dolce e amaro allo stesso tempo. In seguito non seppe mai se quella innocua decisione fosse davvero stata il fulcro di tutta la sua vita futura e di quella di buona parte del pianeta che lo ospitava; questa domanda gli tenne compagnia per molti anni ancora. Entrò nel locale, una decina di odori quasi distinguibili lo avvolsero e lo attraversarono, cercò di non prestare attenzione agli altri avventori, pensò che la maschera del uomo vissuto fosse la più appropriata per quel ambiente sconosciuto di periferia, che tra l'altro non era neppure tra i più raffinati della città. Si sedette, ordinò lo scopo della sua pausa, ed iniziò a sorseggiarlo. Tutto avvenne lì, su quella sedia appositamente alta e scomoda per non far sostare gli avventori più del dovuto. Senza accorgersene fece cadere le sue difese: e questo fu, ma lo capì solo in seguito, il vero cardine della catastrofe. Senza che se ne fosse minimamente reso conto, senza volontà ne pensiero cosciente, aveva abbassato per un istante non si sa bene quanto lungo, il sistema di contenimento del suo dono: le regole di Jack. Non si può dire quanti istanti passarono prima che l'avvenimento, per gli altri avventori “insignificante”quasi consueto in quel quartiere, si verificasse a pochi metri da lui. Si udì solamente uno stridio di gomme, un rumore di una apparecchiatura meccanica che mette in tensione tutte le nervature del metallo di cui è composta per cercare di evitare qualcosa di improvviso. Il rumore divenne sordo.
Nulla fu più come prima. Alcuni, per riflesso condizionato, stavano per rivolgere lo sguardo nella direzione di provenienza del frastuono. Non Jack, non batté una palpebra.
Pensando e ripensando in seguito all'accaduto capì che questo fu il segnale: il cumulo di neve stava per precipitare a terra. Non mosse neppure un muscolo, d'altronde Jack non era più lì dove il suo corpo occupava un'inospitale seggiola da bar. Era uscito. Improvvisamente la sua mente era l'aria che riempiva il locale pregna di tutti gli odori allo stesso tempo, era il pavimento lucido; percepiva il peso di tutti gli astanti in un momento solo, era il calore del posto dove si erano appoggiati, le sedie scomode su cui alcuni sedevano, era i muri su cui la luce del sole disegnava quadri astratti, era i vetri che lo “separavano” dall'aria più fresca di fuori; era l'aria più fresca al di fuori del locale, era il chiarore della luce diffusa dall'asfalto, era la siepe che si dissetava dalla terra umida e l'acqua che diventa siepe nello stesso momento. Era tutto immobile, il tempo è un concetto relativo solo alle singole unità ma non certo un argomento che interessi il tutto. Come poter descrivere qualcosa che non è parte della nostra esperienza. Si dice che solo in punto di morte si possa provare qualcosa di analogo, e chi, anche per un breve istante abbia passato quel confine e ne sia tornato indietro non può che cercare inutilmente e con parole sterili, di raccontarlo ai rimasti. Era l'energia che correva nelle nervature portanti della carrozzeria del mezzo meccanico che stava producendo lo stridio che ora non sentiva più, nessun suono nell'immobilità. Era l'anima della bambina che non accettava ne capiva che fosse arrivato il suo momento. Era la tappezzeria dell'abitacolo, era luce che fastidiosamente entrava dal finestrino del passeggero, era l'increspata levigatezza del intarsiato comando di guida che ripercorreva il suo braccio destro: sentiva il fastidio dell'ingombrante anello d'oro premuto contro il comando di direzione. Era nel corpo del guidatore, era i suoi nervi,ed ora era nella sua mente. Vedeva il mostro che albergava la sua mente da ormai troppi anni senza poter uscire, era il desiderio di schiantarsi insieme al mostro; era la sua disperata, inascoltata richiesta di pace. C'era intenzione di nuocere nella creatura che albergava quella mente.
Un nodo alla gola, ma quella gola non era la sua. Vedeva dinnanzi agli occhi appannati dall'emozione, la bambina; l'impatto, inevitabile. Era l'istinto omicida del guidatore, era la sua voglia di sopravvivere: era nei suoi ricordi, unici che lo avevano trattenuto dal baratro e sul filo del baratro fino a quel momento. Una pressione, una piccola concentrazione di potenza e quel debole segnale incustodito che era la mente dell'ospite, sarebbe stata cancellata con l'innocenza con la quale si cancellano dalla mente i ricordi considerati superflui, con leggerezza, o peggio, rimpiazzati. Libertà totale, poteva scrivere in quella mente, sentiva che avrebbe potuto annientare tutto quel male, cancellarla in un botto e ridurlo ad un vegetale: se avesse avuto tempo avrebbe potuto sostituire la zona malata con dell'inerte vuoto, uccidere il mostro, ma era ormai troppo tardi, non c’era tempo. Se il "paziente" non sapeva di essere sondato la sua mente era inerte e gracile come una anemone che non si sia ancora accorta dell'arrivo del predatore ed abbia ancora tutte le sue fragili estremità sospese nell'acqua. Se solo avesse sospettato qualcosa la Natura ancora una volta l'avrebbe protetto con un immediato stato di “confusione mentale” che avrebbe reso inscindibili tutti i singoli segnali ed inutile l'azione. Si chiese come poteva la Natura aver pensato un meccanismo di difesa verso qualcosa che ancora non esisteva come il controllo del pensiero. Decise senza decidere e vide senza l'uso degli occhi uno sfolgorio di luci bianche sempre più fitte e luminose. Il tentativo di tirare il fiato non ebbe effetto sul diaframma, quel diaframma non era il suo. Jack si sentì improvvisamente morire, era come avere cinquemila chili sul petto, non riusciva a gonfiare il torace per respirare. Era sicuro che non avrebbe resistito a lungo. Si sentiva come se non respirasse da cento anni. Se ora avesse perso i sensi probabilmente sarebbe morto davvero. Tutto finì, come era iniziato, senza preavviso, tornò a vedere dal punto di vista che era proprio del corpo di Jack, gli occhi appannati non riuscivano a mettere a fuoco. Subito non riconobbe il suo corpo, quella bocca non la riconosceva ancora come la sua, la sentiva estranea; il suo corpo pesantissimo, di legno, senza ossigeno. Fu come togliere la luce per un istante, svenne sul bancone. Nessuno se ne accorse, tutte le attenzioni erano concentrate sul drammatico incidente appena accaduto in strada. Rinvenne qualche minuto dopo, la gente era tutta in strada, ricordò vagamente che qualcuno gli aveva dato del maledetto ubriacone. Cercò di respirare a fondo, trovò le forze per allontanarsi da quel luogo. Si sentiva confuso, colpevole e parte in causa dell'incidente allo stesso tempo. Paura, paura, paura. Scappò, per la paura, come già aveva fatto poco prima il conducente del mezzo che aveva investito una bambina sul marciapiede proprio fuori da quel bar. Tornò a casa, diede di stomaco. Ripensò a quello che era accaduto e diede di stomaco un'altra volta. La crepa si era aperta, le sue barriere incrinate. Sentiva che la sua fine era vicina. La Natura non avrebbe permesso ad un simile potere di perpetrare, la sua gola si stava gonfiando e stava per chiudersi. Prima di perdere i sensi pensò che in fondo non era successo nulla, lui non aveva utilizzato il suo potere, o almeno nessuno lo aveva visto o si era accorto di qualcosa. Aveva nascosto bene gli artigli!!!
Il giorno dopo si risvegliò in un ospedale, in un reparto in cui pare che l'attenzione principale fosse dedicata alla sua testa, considerato il grande numero di elettrodi che partivano dal suo capo ad alimentare un complesso macchinario fin troppo curioso.
Ricordò del giorno prima come di un sogno confuso a cui l'attuale situazione di ricoverato dava un ulteriore contributo di nebbia. Si ricordò di essere svenuto, come per una crisi respiratoria e che non aveva fatto in tempo a chiudere la porta di casa. I vicini probabilmente lo avevano soccorso. Sentì una gran felicità per essere ancora vivo ed un gran senso di curiosità e di gratitudine nei confronti delle persone che lo avevano soccorso. Ora respirava bene. Fece tre bei respiri prima di reclinare il capo verso il lato sinistro del letto, dove sentiva respirare artificialmente. Aveva proprio voglia di parlare con qualcuno che potesse dargli qualche spiegazione in più sull'accaduto o sul suo arrivo in ospedale. Il suo vicino era molto pallido ed aveva uno sguardo assente e rivolto verso il soffitto, come se non fosse lì con lui. Ispirò ancora, raccolse le forze per un tentativo di conversazione. Fissò lo sguardo sul braccio del compagno di stanza, poi sulla macchina collegata attraverso gli elettrodi alla testa del vicino: nessuna traccia di attività cerebrale, c'era come un vegetale accanto a lui. Ora riconobbe quel braccio e quell’anello d’oro. L'ultima cosa che udì prima di svenire fu l'insistente segnale d'allarme proveniente dalla macchina complicata e curiosa a cui la sua testa era ancora collegata.

White Clay

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