giovedì 29 aprile 2010

10 Kili

Mi piace la matematica, mi piace ancora di più fare i conti e usarli per poter capire come funzionano le cose. Così qualche volta mi capita di usarla anche in situazioni non esattamente canoniche, come preparare una valigia nei limiti imposti dalla compagnia aerea. Nel caso specifico, la compagnia richiede che il bagaglio imbarcato non debba superare i 10 Kg; fino ad oggi ho seguito il metodo prova-pesa-scarta, che consiste nel riempire la valigia con quello che credi ti possa servire, pesarla e se supera il peso richiesto cominciare ad eliminare indumenti ed accessori.
Oggi ho voluto utilizzare un metodo più scientifico, ho pesato ogni singolo indumento (o meglio ogni categoria) così da poter prevedere quanto peserà la mia valigia, ed ecco i risultati delle prime misure:
  • Maglietta di cotone 200 grammi
  • Calze di cotone 50 grammi
  • Slip 50 grammi
  • Maglione leggero 260 grammi
  • Accappatoio leggero 500 grammi
  • Karate-gi 1000 grammi
  • Jeans 800 grammi
  • Borsa palestra 500 grammi
L'equazione della mia valigia per ora è

4x200+3x50+5x50+1x260+1x500+2x1000+1x800+1x500=5260 grammi

Diciamo che aggiungiendo qualche altra cosetta arriverò fino a 5.5 Kg, aggiungendo i 2 Kg del trolley arriviamo a 7.5 Kg.....non male per ora, domani verificherò se le mie previsioni sono esatte.

Simone Mago

martedì 27 aprile 2010

Non qui

..avrei voglia di parlare con S. tra perdenti ci si capisce bene... :) ..mi fa molto piacere che si stia buttando nel ballo e glielo volevo dire.. ho bisogno di sapere che il mio futuro non sarà qui.. che un giorno potrò passeggiare libero per le strade di Buenos Aires, salutando persone e pensando al tango.. che avrò la gioia nelle scarpe e la leggerezza del cuore.. che non avrò padroni, a parte la mia anima.. che passare una mattinata al caffè a leggere un libro o a conversare con la gente in una lingua straniera ma gentile non sarà un problema.. che ringraziare Dio per una bella giornata sarà doveroso, perchè a forza di ringraziare le belle giornate, la vita poi assume una sua forma, che magari non avrà senso comunque, ma che almeno sarà più gradevole.. Penso alla bellezza ed all'orgoglio delle donne argentine, alla gentilezza del clima di quella terra. Se ho un sogno sto un po' meglio, se ho un sogno posso ancora lottare..

White Clay

giovedì 22 aprile 2010

La collina degli spiriti

Oggi ho ripescato un vecchio articolo di un reporter e scrittore che apprezzo molto, risale al 13 Febbraio del 1994, ma la storia nasce molto prima, agli inizi del '900. Parla di un paese lontano, selvaggio "[...] alla sera non uscivamo perchè c'erano le tigri" e di alcuni emigrati italiani.
In questo periodo in cui il cattivo giornalismo è al centro della scena, credo sia bello leggere una storia di  persone eccezionali nella loro "normalità", buona lettura.

Simone Mago

lunedì 19 aprile 2010

Nou aru taka ha tume wo kakusu

Non era importante cosa avesse in mente quel giorno, una cosa era certa. Ora la misura era colma. Gli sembrava di averla già vissuta infinite volte quella sensazione, ma ieri era stata una volta di troppo. Sapeva che avrebbe potuto cambiare la situazione, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto rivolgere gli eventi a suo favore, girare i piccoli interruttori che controllano il flusso. Ma anche questa volta non lo aveva fatto. Non sarebbe stato legale, non almeno secondo le regole di Jack. Le regole di Jack…
Di solito nell'eseguire piccoli esperimenti non si era mai posto tanti problemi, in fondo si trattava solo di piccole modifiche innocenti, una sbirciatina, quasi nulla più. Aveva un senso talmente forte di colpa e di oppressione che la possibilità di poterne trarre un vantaggio personale lo paralizzava. Jack era convinto in cuor suo che questa sorta di barriera, gli fosse stata imposta dalla Natura. L'Evoluzione, pensava, non poteva sbilanciarsi di colpo in quella direzione così bruscamente: chissà quante volte aveva tentato quella strada, e per quali motivi era poi arretrata. C'era ancora qualcosa che gli sfuggiva, che non riusciva a controllare: la continuità della specie, questa solamente era la direttiva da seguire, tutto il resto doveva prenderne atto ed adattarsi o estinguersi. E mentre era assorto in questi pensieri, si accorse di essere già arrivato sul luogo dell'appuntamento, e come sempre, senza nessun ricordo della quasi mezzora di strada che aveva percorso dal luogo dove ora abitava fino a quell'imponente edificio di periferia. L'animo però oggi era diverso, indomabile, più del solito: era ormai saturo, come un vulcano imprigionato sotto la roccia da troppi secoli che ormai anche solo una piccola crepa può far dirompere. Jack Galway viveva col terrore di quella crepa.
Si ripeté ancora una volta mentalmente il proverbio giapponese che gli insegnò tempo indietro uno dei maestri casuali che di tanto in tanto si procacciava lungo la via, e che lo aveva sostenuto anche nei momenti più bui nel dar battaglia e resistere per qualche istante in più. “Nou aru taka ha tume wo kakusu”: il falco saggio nasconde gli artigli.
La tensione era alta, ma come sempre, la causa non era l'imminente colloquio di lavoro cui avrebbe dovuto presenziare da li a poco. Le questioni materiali lo lasciavano sempre alquanto indifferente. La sera prima, invece, viveva ancora forte nella sua mente. Non ne voleva sapere di dissolversi o di passare, come un pezzo troppo grosso di pane masticato poco che fatichi ad essere ingoiato: il fresco della sera, gli amici, le parole appena bisbigliate, le notizie che si accavallavano e volavano via. Nella mente un contorno nitido: lei, bellissima ed avvicinabile. Se l'era fatta scappare, un'altra volta.
L'avvenimento scaturente che oggi rendeva indomabile il suo animo era, perché negarselo ancora, l'ennesima sconfitta. Anche questa volta, se avesse usato le sue armi avrebbe potuto vincere. Si certo, una battaglia che in fondo in fondo non voleva vincere a quel prezzo. Questa ragazza non era nessuno per lui, ma era bellissima, ed era alla sua portata. E lui ancora una volta aveva rispettato le sue regole, ed aveva lasciato alla Natura fare il suo corso. Al momento gli era sembrata una scelta facile, un'inclinazione ragionevole, ma qualcosa non gli dava pace: perché tanto potere nelle mani di un solo uomo se poi non riusciva a usarlo, se poi qualcosa gli auto-impediva di metterlo in pratica. La vita, pensava, è uno stato dell'anima, e chi è in grado di modificarlo, non ha limiti di potere su tutto ciò che di vivente lo circonda. E Jack questo lo sapeva molto bene. Cosa influenza le nostre decisioni o quelle di un capo di stato se non l'equilibrio tra paura, vantaggio e passione. Un alterazione, impercettibile per un osservatore esterno, tra queste tre forze, un minuto spostamento di quest'equilibrio e la storia devia il suo flusso. Come un piccolo accumulo di neve su un ramo di un albero, inosservato, inutile, così trascurabile da non destare l'attenzione di mille soldati che gli siano passati a pochi metri di distanza: ma giunto il suo momento, artefice ed innesco, una volta caduto al suolo, di una crescente valanga in grado di spazzar via un'intera divisione di mezzi corazzati. Un piccolo cumulo di neve contro un esercito, nessuna incertezza sull'esito della battaglia. Piccoli mutamenti, piccoli interruttori della mente e lui sapeva girarli.
Era in anticipo e pertanto decise che poteva dedicarsi a qualcosa di piacevole nell'attesa come, ad esempio, entrare in un bar dove poter sorseggiare una bevanda tiepida e schiumosa dal sapore dolce e amaro allo stesso tempo. In seguito non seppe mai se quella innocua decisione fosse davvero stata il fulcro di tutta la sua vita futura e di quella di buona parte del pianeta che lo ospitava; questa domanda gli tenne compagnia per molti anni ancora. Entrò nel locale, una decina di odori quasi distinguibili lo avvolsero e lo attraversarono, cercò di non prestare attenzione agli altri avventori, pensò che la maschera del uomo vissuto fosse la più appropriata per quel ambiente sconosciuto di periferia, che tra l'altro non era neppure tra i più raffinati della città. Si sedette, ordinò lo scopo della sua pausa, ed iniziò a sorseggiarlo. Tutto avvenne lì, su quella sedia appositamente alta e scomoda per non far sostare gli avventori più del dovuto. Senza accorgersene fece cadere le sue difese: e questo fu, ma lo capì solo in seguito, il vero cardine della catastrofe. Senza che se ne fosse minimamente reso conto, senza volontà ne pensiero cosciente, aveva abbassato per un istante non si sa bene quanto lungo, il sistema di contenimento del suo dono: le regole di Jack. Non si può dire quanti istanti passarono prima che l'avvenimento, per gli altri avventori “insignificante”quasi consueto in quel quartiere, si verificasse a pochi metri da lui. Si udì solamente uno stridio di gomme, un rumore di una apparecchiatura meccanica che mette in tensione tutte le nervature del metallo di cui è composta per cercare di evitare qualcosa di improvviso. Il rumore divenne sordo.
Nulla fu più come prima. Alcuni, per riflesso condizionato, stavano per rivolgere lo sguardo nella direzione di provenienza del frastuono. Non Jack, non batté una palpebra.
Pensando e ripensando in seguito all'accaduto capì che questo fu il segnale: il cumulo di neve stava per precipitare a terra. Non mosse neppure un muscolo, d'altronde Jack non era più lì dove il suo corpo occupava un'inospitale seggiola da bar. Era uscito. Improvvisamente la sua mente era l'aria che riempiva il locale pregna di tutti gli odori allo stesso tempo, era il pavimento lucido; percepiva il peso di tutti gli astanti in un momento solo, era il calore del posto dove si erano appoggiati, le sedie scomode su cui alcuni sedevano, era i muri su cui la luce del sole disegnava quadri astratti, era i vetri che lo “separavano” dall'aria più fresca di fuori; era l'aria più fresca al di fuori del locale, era il chiarore della luce diffusa dall'asfalto, era la siepe che si dissetava dalla terra umida e l'acqua che diventa siepe nello stesso momento. Era tutto immobile, il tempo è un concetto relativo solo alle singole unità ma non certo un argomento che interessi il tutto. Come poter descrivere qualcosa che non è parte della nostra esperienza. Si dice che solo in punto di morte si possa provare qualcosa di analogo, e chi, anche per un breve istante abbia passato quel confine e ne sia tornato indietro non può che cercare inutilmente e con parole sterili, di raccontarlo ai rimasti. Era l'energia che correva nelle nervature portanti della carrozzeria del mezzo meccanico che stava producendo lo stridio che ora non sentiva più, nessun suono nell'immobilità. Era l'anima della bambina che non accettava ne capiva che fosse arrivato il suo momento. Era la tappezzeria dell'abitacolo, era luce che fastidiosamente entrava dal finestrino del passeggero, era l'increspata levigatezza del intarsiato comando di guida che ripercorreva il suo braccio destro: sentiva il fastidio dell'ingombrante anello d'oro premuto contro il comando di direzione. Era nel corpo del guidatore, era i suoi nervi,ed ora era nella sua mente. Vedeva il mostro che albergava la sua mente da ormai troppi anni senza poter uscire, era il desiderio di schiantarsi insieme al mostro; era la sua disperata, inascoltata richiesta di pace. C'era intenzione di nuocere nella creatura che albergava quella mente.
Un nodo alla gola, ma quella gola non era la sua. Vedeva dinnanzi agli occhi appannati dall'emozione, la bambina; l'impatto, inevitabile. Era l'istinto omicida del guidatore, era la sua voglia di sopravvivere: era nei suoi ricordi, unici che lo avevano trattenuto dal baratro e sul filo del baratro fino a quel momento. Una pressione, una piccola concentrazione di potenza e quel debole segnale incustodito che era la mente dell'ospite, sarebbe stata cancellata con l'innocenza con la quale si cancellano dalla mente i ricordi considerati superflui, con leggerezza, o peggio, rimpiazzati. Libertà totale, poteva scrivere in quella mente, sentiva che avrebbe potuto annientare tutto quel male, cancellarla in un botto e ridurlo ad un vegetale: se avesse avuto tempo avrebbe potuto sostituire la zona malata con dell'inerte vuoto, uccidere il mostro, ma era ormai troppo tardi, non c’era tempo. Se il "paziente" non sapeva di essere sondato la sua mente era inerte e gracile come una anemone che non si sia ancora accorta dell'arrivo del predatore ed abbia ancora tutte le sue fragili estremità sospese nell'acqua. Se solo avesse sospettato qualcosa la Natura ancora una volta l'avrebbe protetto con un immediato stato di “confusione mentale” che avrebbe reso inscindibili tutti i singoli segnali ed inutile l'azione. Si chiese come poteva la Natura aver pensato un meccanismo di difesa verso qualcosa che ancora non esisteva come il controllo del pensiero. Decise senza decidere e vide senza l'uso degli occhi uno sfolgorio di luci bianche sempre più fitte e luminose. Il tentativo di tirare il fiato non ebbe effetto sul diaframma, quel diaframma non era il suo. Jack si sentì improvvisamente morire, era come avere cinquemila chili sul petto, non riusciva a gonfiare il torace per respirare. Era sicuro che non avrebbe resistito a lungo. Si sentiva come se non respirasse da cento anni. Se ora avesse perso i sensi probabilmente sarebbe morto davvero. Tutto finì, come era iniziato, senza preavviso, tornò a vedere dal punto di vista che era proprio del corpo di Jack, gli occhi appannati non riuscivano a mettere a fuoco. Subito non riconobbe il suo corpo, quella bocca non la riconosceva ancora come la sua, la sentiva estranea; il suo corpo pesantissimo, di legno, senza ossigeno. Fu come togliere la luce per un istante, svenne sul bancone. Nessuno se ne accorse, tutte le attenzioni erano concentrate sul drammatico incidente appena accaduto in strada. Rinvenne qualche minuto dopo, la gente era tutta in strada, ricordò vagamente che qualcuno gli aveva dato del maledetto ubriacone. Cercò di respirare a fondo, trovò le forze per allontanarsi da quel luogo. Si sentiva confuso, colpevole e parte in causa dell'incidente allo stesso tempo. Paura, paura, paura. Scappò, per la paura, come già aveva fatto poco prima il conducente del mezzo che aveva investito una bambina sul marciapiede proprio fuori da quel bar. Tornò a casa, diede di stomaco. Ripensò a quello che era accaduto e diede di stomaco un'altra volta. La crepa si era aperta, le sue barriere incrinate. Sentiva che la sua fine era vicina. La Natura non avrebbe permesso ad un simile potere di perpetrare, la sua gola si stava gonfiando e stava per chiudersi. Prima di perdere i sensi pensò che in fondo non era successo nulla, lui non aveva utilizzato il suo potere, o almeno nessuno lo aveva visto o si era accorto di qualcosa. Aveva nascosto bene gli artigli!!!
Il giorno dopo si risvegliò in un ospedale, in un reparto in cui pare che l'attenzione principale fosse dedicata alla sua testa, considerato il grande numero di elettrodi che partivano dal suo capo ad alimentare un complesso macchinario fin troppo curioso.
Ricordò del giorno prima come di un sogno confuso a cui l'attuale situazione di ricoverato dava un ulteriore contributo di nebbia. Si ricordò di essere svenuto, come per una crisi respiratoria e che non aveva fatto in tempo a chiudere la porta di casa. I vicini probabilmente lo avevano soccorso. Sentì una gran felicità per essere ancora vivo ed un gran senso di curiosità e di gratitudine nei confronti delle persone che lo avevano soccorso. Ora respirava bene. Fece tre bei respiri prima di reclinare il capo verso il lato sinistro del letto, dove sentiva respirare artificialmente. Aveva proprio voglia di parlare con qualcuno che potesse dargli qualche spiegazione in più sull'accaduto o sul suo arrivo in ospedale. Il suo vicino era molto pallido ed aveva uno sguardo assente e rivolto verso il soffitto, come se non fosse lì con lui. Ispirò ancora, raccolse le forze per un tentativo di conversazione. Fissò lo sguardo sul braccio del compagno di stanza, poi sulla macchina collegata attraverso gli elettrodi alla testa del vicino: nessuna traccia di attività cerebrale, c'era come un vegetale accanto a lui. Ora riconobbe quel braccio e quell’anello d’oro. L'ultima cosa che udì prima di svenire fu l'insistente segnale d'allarme proveniente dalla macchina complicata e curiosa a cui la sua testa era ancora collegata.

White Clay

domenica 18 aprile 2010

Presente, passato o futuro

Ieri sera mi è capitato di vedere un programma in televisione, ospite Gillo Dorfles, un uomo di 100 anni con una lucidità estrema. Delle varie cose che ha detto, una mi ha colpito, lui afferma che oggi nel linguaggio comune è sempre più in disuso il tempo futuro, si è tutti intrappolati in una sorta di presente continuo. Facendo mente locale e analizzando quasi in modo statistico i dialoghi che ho quotidianamente con le persone mi sono reso conto che sono sempre le persono più attive e ottimiste a guardare avanti, è una banalità lo so, ma non l'avevo mai collegata con il linguaggio. Fanno progetti, lavorano per  realizzarli e qualche volta ce la fanno, altri sono troppo impegnati a lamentarsi guardandosi l'ombelico, ricordando quanto stavano bene prima, un prima che non coincide mai con l'adesso, difficilmente usano il tempo futuro molto spesso il passato. 
Io non voglio essere così, quindi mi impegnerò ancora di più ad usare sempre più spesso il tempo futuro

"Le persone che si lamentano del proprio stato danno sempre la colpa alle circostanze. Le persone che vanno avanti in questo mondo sono quelle che si danno da fare e cercano le circostanze che vogliono e se non riescono a trovarle, le creano." George Bernard Shaw


Simone Mago

lunedì 12 aprile 2010

C'è


C'e' una bella ragazza ai fornelli. Di profilo sembra uscita da un fumetto di Manara, la linea delle coscie e la fasciatura dei fianchi sono praticamente perfetti.. proporzionata, capelli lunghi e neri viso giovane, o almeno di quelli che attirano l'attenzione. Sta cucinando qualcosa, in teoria è per me e per lei, ma del mio parere penso che gliene importi poco, è più importante dare l'immagine di lei che è lì a cucinare per me. C'e' una cucina  attorno a lei, è la mia cucina e quasi quasi un po' mi scoccia di non essere io ad usarla.. C'è una tavola apparechiata davanti a me, quella almeno devo averla apparecchiata io. Vedo le mie braccia appoggiate silenziose sul tavolo e non posso non sentire il nostro silenzio. Non il rumore della ventola, ne il soffriggere della casseruola, neppure il sottofondo della televisione riescono a mascherare il silenzio che ci divide. Il mio corpo è qui, o almeno i miei sensi stanno registrando da questo punto di vista, ma la mia mente si è ritirata. E' come andata al cinema.. Si ogni tanto si affaccia da uno dei cinque sensi come fossero finestre, per vedere cosa c'e' là fuori.. un dialogo poco interessante, una bella  ragazza ai fornelli, schifezze in televisione, il silenzio frusciante delle piante di fuori.. leggero gonfiore  addominale e seggiola non troppo comoda.. nulla di interessante direi, si può tronare dentro a fantasticare.. ma quel che si dice dentro non parla di grandi auspici.. la maggior parte delle opinioni vede una vita molto infelice per voi, e questo occupa giustamente gran parte delle discussioni e delle proiezioni.. Penso che un giorno scriverò di questo momento di assoluto distacco e lucidità, sono curioso di sapere se capita anche ad altri.. e con che coraggio poi vanno avanti..

C'e' una foglia sul pavimento. E' gialla e verde e mi passa accanto, ma forse sono io a passarle accanto. Sullo scuro del  marciapiede bagnato dalla sera e dalla pioggia risalta tantissimo è quasi lì solo per me, non riesco a smettere di guardarla. Penso che se fossi stato Giulio Cesare duemila anni fa avrei potuto godere dello stesso spettacolo, della stessa scena, ma di un'altra foglia:stessa scena diversi i protagonisiti. Ho ancora il suo profumo e il suo sapore sulle mie  labbra e nelle mie narici,batte caldo il cuore ora. Sono stato a letto con una donna, molto bella. Mi ricordava un po' Pamela Anderson da giovane, ed averla per davvero a mia disposizione per quel tempo, ha sopperito abbondantemente al fatto che prima non ci conoscevamo. La bellezza del corpo femminile è una cosa che puo' risollevarti l'animo, se il tuo animo non è troppo schiacciato per non accorgersene. Non chiedo di essere da nessun'altra parte, in nessun'altro tempo. Non vorrei essere una persona diversa da quella che sono in questo momento o di essere in un altro viale.
Questi sono i passi perfetti, questa l'aria perfetta, questo il fresco sul viso perfetto. Non starò qui per sempre. Ne è valsa la pena ancora una volta di fare quello che ho sentito dentro.. di accettare i rischi e di attraversare il gradino che mi ha portato fuori casa: se domani mi dovesse succedere qualcosa, potrò dirmi guardandomi nell'anima: carissimo, tutto quello che potevamo fare l'abbiamo fatto.. forse potevamo fare di piu' o forse potevamo fare di meno, ma il tempo io l'ho fermato. Ed ho reso grazie a Dio per avermi dato questa vita, perchè questa sera e questi sentimenti  valgono qualunque  cosa sia passata o qualunque cosa sarà il futuro. So che non è un bene nutrirsi solo di attimi stupendi, ma è come una droga, se inizi è difficile smettere. E poi perchè dovrei smettere, non è forse la mia vita questa, non sono già stato nella merda abbastanza..? Se non fosse per quel che rende bella la vita, qualunque cosa sia, per cos'altro bisogna vivere?


C'e' una scarpa da ballo infilata al mio piede, è scura, bella e lucida, dev'essere da tango. In effetti sono in uno spogliatoio, e dal parquet che c'e' in terra e dalla musica in sottofondo direi proprio che si tratta di una scuola di tango. Le mie mani non hanno esitazioni nell'allacciare le stringhe, lo hanno fatto migliaia di volte ed oramai non hanno piu' bisogno della mia attenzione. Dentro quella scarpa c'e' proprio il mio piede, lo stesso piede che ho portato sulle sabbie dell'Egitto o nei Dojo del Karate. La sensazione è divertente, le mie braccia continuano a servirmi come se fossi un principino.. mi vestono, mi pettinanno, mi lavano, mi sistemano i vestiti e le scarpe, quasi dovessi debuttare in uno spettacolo. Ed oggi lo spettacolo è lo spettacolo della vita: oggi si ballerà questa musica stupenda, abbracciati ad una sconosciuta profumata che se avrai abbastanza cuore poi divenerà tua, almeno nell'anima e almeno per un pò. Ringrazio Dio per esserne uscito fuori, per non sapere quel che sarà del mio domani, per non avere più certezze:negative. L'incognito in fondo, è meglio di una certezza negativa, lo si puo' sempre tentare di cambiare. C'e' luce che entra dalle finestre in alto e c'e' luce nel mio cuore. Ancora una volta mi sono dimsotrato che se una situazione è molto negativa ho una possibilità di cambiarla, ed il coraggio di farlo..

White Clay

Metropoli

8 Agosto 2008 (08-08-08), già la data è evocativa,  secondo la cabala il numero 8 è legato al confronto con rischi estremi e capovolgimenti di vita, io quel giorno ho preso un volo intercontinentale per un paese lontano, sconosciuto e di cui non conoscevo nemmeno la lingua.
Per quanto uno si prepari al salto non può evitare la stretta allo stomaco e l'adrenalina di un'esplorazione, non mi aspettano foreste, deserti o eventi atmosferici estremi solo un'enorme metropoli, anzi La metropoli ...33 milioni di abitanti e 8500 km² di area urbana, immaginate di mettere più della metà della popolazione italiana solo in Umbria.
Un'ultima boccata di aria non condizionata all'esterno di Malpensa, mentre il sole tramonta, la prossima sarà in una mattinata calda e umida al Narita, il sole non si vede ma i suoi effetti si sentono.
Dopo circa 10 giorni mentre esco dall'albergo, sono a mio agio, non uso più la cartina da qualche giorno, il caldo e l'umido insieme al profumo degli yakitori e allo stridere delle cicale sono ora il timbro caratteristico di casa mia. A sinistra c'è un KFC semideserto, devo ricordarmi di scattare qualche foto per G. fra poco parte per il Kentucky e voglio mostrargli parte della cucina tipica. A destra nascosto nelle strette vie dietro i grattacieli c'è un venditore di pesche, sotto un ombrellone con i suoi prodotti perfetti e confezionati uno ad uno, solo una radiolina e il suono delle cicale gli fanno compagnia, io sono l'unico passante, il sole fa desistere chiunque ad allontanarsi dai locali climatizzati.
Io sono esattamente dove vorrei essere, nonostante sia arrivato da poco penso che la metropoli meriti più tempo per essere esplorata e vissuta, un mese non basta, devo fermarmi di più c'è qualcosa qui che mi attira ma ancora non so cosa sia.
La sera prima del rientro in Italia la voglia di restare è grande e prego per un evento naturale che mi obblighi a restare, in parte vengo accontentato, si scatena un temporale tropicale, la metropoli è illuminata dai fulmini e gli edifici sono scintillanti coperti dalla pioggia....è il momento ideale per iniziare la ricerca.
Mi siedo alla scrivania accendo il portatile e inizio a cercare, qualche mese dopo dall' Italia mando un paio di curriculum e lascio il tanto agoniato posto fisso, mi rispondono, uno dei due mi fa vincere un viaggio pagato, la scelta è fatta. Passa qualche mese e arriva la lettera di ammissione sarò stipendiato per fare ciò che mi piace, in un luogo che adoro, la Metropoli.

Simone Mago